Ho sempre sentito parlare del mal d’Africa. L’aveva una coppia di miei amici che per quasi quindici anni, prima che arrivassero i figli, immancabilmente ogni Natale doveva volare laggiù.
Nel 2006 decidemmo di andarci anche noi. Dopo varie consultazioni di cataloghi, si decise per il Sudafrica e lo Zimbabwe.
Sono Paesi vicini, ma, per lo meno ai miei occhi, molto diversi.
Del primo ho visitato qualche città, soprattutto Johannesburg, attraversato montagne che più che all’Africa mi facevano pensare alla Svizzera o alle Highlands scozzesi, e poi ho esplorato un parco. Il più noto: il Krugher Park.
Jeep spartana, guida autorizzata, ore e ore lungo sentieri nella speranza di vedere un leone, qualche rinoceronte, gli apparentemente miti ippopopotami che invece pare siano pericolosissimi, tante gazzelle.
La jeep era bella alta, le raccomandazioni tante, ma la sensazione più di essere dentro uno zoo safari che veramente in Africa.
L’unica esperienza davvero avventurosa era percorrere il vialetto del lodge in cui abbiamo dormito qualche notte, con un ponticello da attraversare e un inquietante cartello che avvertiva della possibile presenza di coccodrilli.
Molto diversa l’esperienza dello Zimbabwe, ancora selvaggio, senza cancelli e recinzioni per gli animali, ed escursioni al limite della galera, tipo quella che incoscientemente ho fatto con mio figlio in groppa a un elefante, con incontro ravvicinato con una mandria di bufali, della quale avevo raccontato qui
Cosa mi porto nel cuore? Le immagini tenere della vita della savana.
due kudu innamorati che sembrano abbracciarsi e proteggersi
una elefantessa che cammina con accanto il suo cucciolo
una scimmia che tiene amorevolmente in braccio il suo piccolo.
Perché l’amore, in fondo, è uguale dappertutto.